Film: Logan, The Wolverine
Anno: 2017
Genere: western- cinecomic
Cast: Hugh Jackman, Patrick Stewart, Dafne Keen, Richard Grant, Boyd Holbrook
NON E’ UN PAESE PER VECCHI MUTANTI- Il futuro è un posto ostile, desertico, milleriano. Nel 2029 la stirpe mutante è stata spazzata via quasi completamente dall’uomo e resta solo un avamposto ai confini del mondo dove Logan, vecchio e malconcio, tiene al sicuro quel che ne resta. Appesi gli artigli al chiodo, Wolverine è ai margini della società e osserva gli altri vivere da uno specchietto retrovisore, come il suo nuovo mestiere richiede. E mentre ti chiedi come abbia fatto a ridursi in questo stato, ecco che nella sua vita irrompono una donna messicana che chiede protezione e una bambina molto silenziosa.
Il tema politico resta perennemente alla finestra. Siamo a El Paso, a due passi dal confine, la dottoressa che tiene in cura la bimba è una messicana ribelle che ha solo sete di giustizia.
Dichiaratamente e volutamente ispirato a Gli Spietati ma soprattutto a Il Cavaliere della Valle Solitaria (George Stevens, 1953)- di cui vediamo addirittura delle scene prolungate alla televisione-, il terzo spin off diretto da James Mangold è un film “di confine” e “di passaggio”.
Approposito, torna più che mai d’attualità il sondaggio: “Ma quanto cavolo somiglia Jackman al Clint Eastwood di una trentacinquina d’anni fa?”
Dicevamo, un film “di confine”. Confine tra passato glorioso e presente ai margini ma anche tra passato, presente e futuro, piuttosto nebuloso, dei cinecomics.
I grandi vecchi del Marvel Cinematic Universe, Logan e Xavier, tra appena 12 anni sono esseri malati, emarginati, fragili, confinati nell’angolo più polveroso del mondo, nello specifico una fattoria e una cisterna diroccata che dall’interno ricorda un po’ Cerebro. Le battaglie in calzamaglia sono nel dimenticatoio a tal punto che arrivi addirittura a dubitare che siano mai successe per davvero e non si tratti solo del delirio schizoide di un vecchio professore sulla sedia a rotelle.
Del resto tutto sa di disfacimento, dalla violenza esplicita e truculenta al turpiloquio spinto dei dialoghi; confrontarli con il primo pudico X-Men è un’operazione quasi divertente. La speranza arriva quando oltre l’orizzonte fordiano (più precisamente North Dakota) si intravede una nouvelle vague mutante figlia dell’odio dell’uomo del sud, delle macchine e delle provette- i millennials nati con la generazione digitale.
La sceneggiatura regala subito novità interessanti come la rilettura del personaggio di Calibano (era già in X-Men Apocalypse, ma in veste completamente diversa): lui e Logan vengono presentati quasi come una coppia gay.
Per la prima volta in 17 anni di cinecomics, i comics/fumetti degli X-Men finiscono nelle mani dei protagonisti del film e, se dapprima vengono trattati alla stregua di favolette per bambini, alla lunga diventano il senso profondo di tutto.
Ma Logan è anche un film “di passaggio”. Il tema politico e l’attualità americana restano perennemente alla finestra. Siamo a El Paso (letteralmente ”passo”, “passaggio”) a due passi dal confine tra Texas e Messico e la dottoressa che tiene in cura la piccola Laura (destinata a diventare X-23) è una messicana che ha sete di giustizia.
Disfacimento che sa di denuncia anche nei confronti di un cinema digitale senz’anima. Non a caso, nel film troviamo Logan nella doppia veste giovane-ricreato al computer-cattivo contro vecchio-carne e ossa di adamantio-buono, un po’ come già successo al vecchio Schwarzy.
In Logan ci sono due villain “dichiarati” ma sono entrambi deludenti e poco approfonditi (addirittura uno di essi si dichiara fan di Wolvie: autocitazionismo a palate). Hugh Jackman regala nuove interessantissime sfumature dark al suo alter ego più celebre prima di lasciare definitivamente il testimone, così come Patrick Stewart. Dafne Keen (classe 2005) nei panni di X 23 è di certo una star del futuro.
La battaglia del bene contro il male lascia il posto a tematiche molto più metanarrative e profonde che si amalgamano alla grande con le musiche di Jim Croce e Johnny Cash. Logan è un film molto più maturo dei suoi due deboli predecessori anche se, in definitiva, un po’ lunghetto.
La contaminazione cinecomic-western funziona, perché la contaminazione è la chiave del film a partire da quella che mina il corpo e il volto di Logan dall’interno (nella realtà, Hugh Jackman ha un tumore alla pelle) e che lo ha reso in una specie di reietto, più di quanto già non lo fosse; di indole buona, certo, ma qualche volta anche profondamente egoista.
L’ULTIMA BALLATA DI LOGAN- Insomma, Mangold trova una quadra non semplice pescando dalla sua precedente filmografia oltre che da Ford, Raimi, Leone ecc. L’estetica western si incontra con il gore più spinto e un film sui supereroi diventa il tratto (auto)conclusivo e discendente di una parabola iniziata quasi vent’anni fa da Bryan Singer. Logan- The Wolverine non è solo il canto del cigno di uno dei personaggi più iconici in assoluto degli ultimi anni, ma di un genere che è ormai parte integrante del dna della settima arte e quindi quasi-morto nella forma che conoscevamo (genesi dell’eroe, sequel ecc.) ma più che mai vivo sotto forma di simbionte del cinema in senso lato. E se speravate in una convergenza cool e scanzonata con Deadpool beh, dovrete attendere. O forse no.
di Giuseppe Piacente