CINEMA. LA CURA DAL BENESSERE, di G. Verbinski | MORTI DI SALUTE

Film: La Cura dal Benessere

Regia: Gore Verbinski

Genere: thriller

Anno: 2017

Cast: Dane Dehaan, Mia Goth, Jason Isaacs

 

THE ROAD TO WELLVILLE- Il giovane lupo di Wall Street Lockhart viene incaricato di riportare alla base il suo boss da una clinica europea da cui l’uomo sembra proprio non volersi congedare. Lo attende un viaggio di 6.000 chilometri che collega Wall Street al cuore della Svizzera.

Eli Roth, Kubrick tricchettracchebombammano

Meglio a me che a Di Caprio, Meglio a me che a Di Caprio, Meglio a me che a Di Caprio…

Messi da parte i toni western (Rango, Lone Ranger), Gore Verbinski si dedica ad un’altra delle sue passioni: l’horror. Il promettentissimo incipit alla Michael Mann -una notevole estetica visiva di interni metropolitani che vorremmo durasse più di una manciata di minuti- vira gradualmente nel circo del fantastico di Verbinski (già autore di Pirati dei Caraibi e The Ring), reduce da una lunga parentesi disneyana. Seppur con qualche ombra oscura nel suo passato, Lockhart ha tutta l’aria di essere un giovane Gordon Gekko dei nostri tempi ma basta qualche attimo e un’inquadratura che “infila” la sua berlina nera nelle due anguille di ferro che si incrociano sul cancello d’ingresso della clinica (inquadratura ricorrente e figlia del cinema di Roger Corman. Vedi foto) et voilà, si cambia registro. Si entra ufficialmente nel regno della fiaba gotica, dapprima in punta di piedi e poi con due scarpe e mezzo.

Riassunto del film

Riassunto del film

Comincia qui uno strano e per molti versi immotivato deja vu con Shutter Island (M. Scorsese) e non solo perché Dane DeHaan, straordinario come in Chronicle, sembra il cuginetto inglese di Leonardo Di Caprio. La somiglianza è anche di idee e di ambientazione, un posto inaccessibile e apparentemente tranquillo che a poco a poco diventa prigione da cui è pressoché inutile tentare di scappare.

BE WATER, MY FRIEND- E poi c’è l’acqua, intesa più come specchio, antitesi e non sintesi di purezza, a cui il cinema ha già assegnato in passato il compito di lavare via il sangue, occultare verità sommerse o far emergere spettri dal passato (Le verità nascosteMystic River, Cape Fear ma anche la scena finale di Suburra). Nel bellissimo thriller di Scorsese l’acqua circondava l’isola rendendo impossibile la fuga del detective Di Caprio, qui invece l’acqua è apparentemente miracolosa e c’è da capire se servirà davvero al nostro per rimettersi in forze e ritrovare la mobilità perduta.

Ma le similitudini con Shutter Island finiscono qui. Il filone del cinema nei manicomi ci ha regalato perle in passato, ma Verbinski sembra attingere da tanto (troppo?) altro cinema. La sua regia è come l’acqua teorizzata da Bruce Lee: spesso si ispira ad altri artisti al punto tale da prenderne quasi le sembianze. In alcuni spezzoni all’interno della clinica, specie nella jacuzzi, sembra di stare nell’Hotel Shatzaip in cui Sorrentino ha ambientato Youth, anche se il regista nato ad Oak Ridge se ne serve per andare su sentieri b-side, inseguendo mostri immaginari fra i tanti, troppi, corridoi- omaggio a Il corridoio della Paura (Fuller).

E senti... che fai stasera?

E senti… che fai stasera?

Il regista firma una prima mezz’ora da antologia del cinema, basti vedere come è girata e fotografata la scena dell’incidente e più in generale pesca in acque miracolose (Fuller per gli interni, Kubrick per le simmetrie, De Palma per il finale) senza però badare troppo alla coerenza della storia. E i rimandi non terminano certo qui: i marchingegni retrò della clinica e i modi decisi del direttore, ad esempio, hanno un che di Alan Parker e  The Road to Wellville (Morti di Salute). C’è spazio anche per spunti alla New Hollywood anni ’70: i paesani che abitano il villaggio ai piedi della montagna sembrano la versione tedesca e punk degli inglesi bigotti e molesti di Straw Dogs (Cane di Paglia) di S. Peckinpah; un paio di idee sembrano sottratte a Game of Thrones. 

Il film appare subito molto concentrato (anche nel senso di “denso”) dal punto di vista dei sottostesti e delle suggestioni visive (anguille ne abbiamo?), meno sul versante della sceneggiatura e non si preoccupa più di tanto di mantenere un livello di verosimiglianza e coerenza degni di tale nome. L’unico modo che lo spettatore ha di godersi il film è soprassedere davanti a qualche faciloneria di troppo e usare il filtro, appunto, del B-Movie.

Basti pensare al protagonista che, sorvegliato, zoppo e con le stampelle, raggira tutti gli operatori semplicemente nascondendosi dietro le porte e riuscendo, con irritante facilità, a sgusciare dappertutto su una gamba sola e a svelare un mistero rimasto sepolto per oltre due secoli. Manco fosse un’anguilla o Robert Langdon.

Bravi gli attori. Dane DeHaan finalmente in un ruolo adulto, Jason Isaacs a suo agio nel ruolo del villain e la ragazza, Mia Goth (nomen omen), presentata quasi come uno spettro, è un cliché horror vivente: capelli lunghi, piedi nudi, sguardo assente e accanto a lei, inizialmente, una vasca che sembra la versione riveduta e fotograficamente corretta del pozzo di The Ring, film che deve proprio a Verbinski la sua “americanizzazione”.

MALATI IMMAGINARI- Nonostante il tutto scorra in maniera elementare davanti ai nostri occhi, come in ogni horror che si rispetti, ci sono diversi sottostesti di denuncia sociale. Il conflitto tra bassifondi e alta società “malata” sa tanto di Carpenter (Essi Vivono) ma il vero nemico è rappresentato dai ritmi proibitivi di lavoro che la società ci impone e che il protagonista vive su di sé in prima persona, a discapito delle cose realmente importanti e dell’equilibrio naturale (vediamo animali bellissimi che fanno una fine orribile). Così come “realtà” e “allucinazione”, anche “cura” e “malattia” diventano un’unica cosa se il mondo è così imbambolato dalle sirene del successo e della carriera e tutti hanno bisogno di stare male. L’unica flebile speranza sono i giovani.

In un crescendo di metafore, la Cura dal Benessere aggiunge, aggiunge e continua ad aggiungere fino al finale parossistico, barocco e grottesco che non convince granché, pur sollevando un bel po’ di punti di domanda. L’impressione finale, come per Split, è di un prodotto forte, traboccante di citazioni oltre l’orlo ma debole allo stesso tempo. Un’occasione parzialmente sprecata. Consigliatissimo per chi ama il cinema horror d’annata e i grossi calderoni di celluloide. Gli altri possono lasciar perdere.

IL BUG- Quando Lockhart si intrufola nella stanza più importante, c’è un bug visivo che riguarda la stampella che blocca la porta.

Author: copyisteria

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