CINEMA. THE HATEFUL EIGHT, di Q. Tarantino | 8 grossi (e incazzati) indiani

Film: The Hateful Eight

Regia: Quentin Tarantino

Anno: 2015

Cast: Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Tim Roth, Bruce Dern, Michael Madsen

Sull’ottavo film di Quentin Tarantino è stato detto tutto e il contrario di tutto, perché si sa che ad ogni suo lavoro si leva un coro a due voci: da una parte gli apocalittici (“Non è più quello di Reservoir Dogs e Pulp Fiction), dall’altra gli integrati (“Lo amo a prescindere”), tanto per citare una dicotomia cara ad Umberto Eco.

L’Emporio di Minnie è la cassetta degli attrezzi del cinema di Tarantino: il montaggio diacronico; le  tavole del pavimento come linea di confine tra l’occhio del narratore e quello dello spettatore un po’ come nella scena iniziale di Inglorious Basterds; l’immancabile Mexican standoff finale ecceteraeccetera.

Se pensavate che la digressione storica agli albori dell’emancipazione razziale statunitense si fosse conclusa con le avventure di coraggio e vendetta di uno schiavo venuto dalle catene e divenuto poi “la pistola più veloce del sud”, eccovi serviti. A quanto pare con Django Unchained (2012), Tarantino aveva appena abbozzato la sua personale prospettiva sulla storia evolutiva a stelle e strisce. Per prendere una posizione in merito, la più netta della sua intera filmografia, Tarantino infila 8 canaglie in un casale sperduto del Wyoming (nella realtà è il Colorado), in cui si innescano fin da subito odi, simpatie, vecchi rancori, il tutto mentre fuori infuria la tempesta di neve perfetta.

Il Glorioso 70mm. 15 Gloriosi euro.

In un gioco temporale tipicamente tarantiniano ma non particolarmente complesso (Apocalittici, divertitevi!) che sa di tante cose, in primis La Cosa, Agatha Christie e Lucio Fulci, le vite di questi Odiosi Otto si ritroveranno di colpo avvinghiate nel tempo e nello spazio, strette sempre più l’una all’altra in una morsa letale di complotti e sospetti che ha il sapore della trovata scenica teatrale, oltre che del B Movie.

In Django Unchained un giovane cacciatore di taglie giocava a fare il negriero e nascondeva un foglio di “vivo o morto” nella giacca per poter sopravvivere, qui invece un vecchio cacciatore di taglie (E se fosse Django qualche anno dopo?) nasconde una lettera falsa di Abramo Lincoln per attirare le simpatie dei bianchi ed evitare il linciaggio. Cosa pensi Tarantino dell’”America dei Padri” bigotta e razzista è fin troppo chiaro.

Osservando con lentezza questo “campione” -dalla fedina penale non proprio pulitissima- di Stati Uniti d’America postguerra civile, lo spettatore attende un coup de theatre che arriva, ma senza emozionare più di tanto.

Nell’attesa di questa rivelazione, nell’attesa che i fatti prendano una piega inaspettata e talvolta inspiegabile, ci accorgiamo che qualcosa sullo sfondo prende forma; qualcosa che somiglia molto da vicino alla storia (con la S maiuscola) dell’America. Nel chiuso di una baita del Wyoming va di scena la Genesi degli USA scevra da perbenismi e censure, sotto forma di farsa tarantiniana: un viaggio all’Inferno che tocca l’apice con il volto imbrattato di sangue e vomito di Jennifer Jason Leigh (De Palma docet). La vera estetica tarantiniana, invece, si palesa non tanto nelle scene splatter e gore quanto nel racconto di Marquis Warren al vecchio generale Smithers (Bruce Dern sprecato nel ruolo).

l 70mm sono una buona trovata di marketing e nulla più. Bene quasi tutti gli interpreti, realmente infreddoliti sul set. Su tutti, Jennifer Jason Leigh. Troppo marginale Michael Madsen; non proprio il massimo dell’espressività Channing Tatum.

L’Emporio di Minnie è la cassetta degli attrezzi di Quentin-regista e dentro c’è tutto ciò che già conosciamo a memoria, anche se stavolta si tiene su piuttosto a fatica (servono due tavole per chiudere la porta): il montaggio diacronico, la divisione in capitoli, il tema razziale, il manipolo di canaglie, l’attesa che i nodi temporali vengano al pettine, i buoni così violenti (Kurt Russell), i cattivi così pacati (Tim Roth), le tavole del pavimento come linea di confine tra l’occhio del narratore e quello dello spettatore un po’ come nella scena iniziale di Inglorious Basterds; l’immancabile Mexican standoff finale ecceteraeccetera.

Già visto. Eppure.

Sebbene la storia non sorprenda (d’altronde il vecchio Quentin ci ha abituati forse troppo bene), si resta piacevolmente sorpresi dalla lentezza dell’incedere, accompagnata dall’ouverture di Ennio Morricone, che porta al finale. E’ tutto già visto ma serve a veicolare un messaggio nuovo, politico, intimo. Il passaggio da western moderno a horror puro è emblematico del fine ultimo della pellicola: svelare il Tarantino-pensiero e smascherare le ipocrisie che sono state dette nei libri di storia e che continuiamo a dirci oggi nel 2016. Rimescolare le carte, switchare i volti noti nel pantone (una serie di facce note di feticci 55-70enni divenuti tali proprio grazie alla mitologia postmoderna del papà di Pulp Fiction) serve a ricordarci, semmai ce ne fosse bisogno, che il cinema è spesso figlio del vissuto personale degli autori (il padre adottivo di Tarantino è un nero) e che la creatività del regista del Tennesse incarna in pieno il superamento di un certo antirazzismo finto-militante un po’ ipocrita. L’ipocrisia e la meschinità di alcuni bianchi è un fatto storico indiscutibile che il Nostro mette alla berlina senza pietà, senza rispetto. Come accade con i grandi registi, anche qui il cinema (inteso alla Melies), la finzione, il teatro, il gore più spinto riescono alla fine a creare molta molta più verità di quanta non ne riuscirebbe a generare una ricostruzione fedele, miniaturizzata, scannerizzata.

The Hateful Eight è un buon film che (si) interroga su cosa sia davvero il senso di giustizia e di umanità quando finisce nelle mani degli uomini. Raramente, forse mai, Tarantino si era lasciato andare a giudizi così intimi. Ciononostante la pellicola è anche una delle più criptiche, spigolose, difettose a livello di sceneggiatura (giusto non candidarlo alla Sceneggiatura Non Originale), oltre che meno votate all’entertaining puro.

Author: copyisteria

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